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La Dott.ssa Colizzi ci parla della relazione fraterna nella disabilità

La Dott.ssa Colizzi ci parla della relazione fraterna nella disabilità

09.02.2015.

colizzi2La Dott.ssa Irene Colizzi, psicoterapeuta operante presso il Centro Medico Psicologico, ci parla della relazione fraterna nella disabilità.

Quando si parla di disabilità solitamente ci si riferisce alla persona disabile o alla definizione di disabilità, su cui si discute ormai da molto; si parla, inoltre, di integrazione del soggetto disabile nella società e, infine, della famiglia del disabile mettendo in luce, soprattutto, la diade madre-bambino.

Poco spazio rimane per discutere su argomenti considerati, in qualche modo, “marginali” tra cui il legame fraterno.

In fondo, però, il legame fraterno è il legame in assoluto più duraturo nel corso dell’ esistenza, i fratelli dei soggetti disabili vivono la disabilità tanto quanto gli altri familiari e, soprattutto,  i fratelli e sorelle sono, con molta probabilità, coloro che si sostituiranno alle cure parentali nel famoso e terrifico “dopo di noi”.

Quindi, in virtù di queste considerazioni, perché ritenere questo speciale legame un argomento marginale?

Perché non parlare anche dei fratelli di soggetti disabili e coinvolgerli, fin da subito, in quel delicato e difficile processo, conseguente alla comunicazione della diagnosi, che porta la famiglia verso la conoscenza e l’accettazione della diversità?

Spesso i genitori di soggetti disabili riportano alcune importanti preoccupazioni relative al fratello “sano”: sono, ad esempio, preoccupati che il fratello possa “subire” la disabilità e tutte le  sue più spiacevoli manifestazioni oppure si sentono colpevoli per il fatto di non poter dedicare le stesse attenzioni che riservano al fratello disabile, temono, inoltre, che il rapporto tra fratelli sia “contaminato” dalla presenza di disabilità e che non possano esserci quell’ affetto e quella complicità tipiche delle relazioni fraterne.

E’ sicuramente un argomento ricco di spunti di riflessione, punti di vista diversi e interrogativi che necessiterebbero di una risposta.

Cosa riporta la – seppur scarsa – letteratura sull’ argomento?

Fino agli anni Ottanta l’atteggiamento degli studiosi nei confronti di questa relazione era sicuramente pessimistico: venivano, infatti, raccolti principalmente vissuti negativi dei fratelli nei confronti della disabilità.

Successivamente l’accento è stato posto sulla possibilità di identificare caratteristiche peculiari di questo legame rispetto ad un comune legame fraterno, arrivando alla conclusione che, tutto sommato, non esistono poi così tante differenze!

Per quel che riguarda l’ aspetto negativo della relazione, partendo dalle testimonianze di questa particolare popolazione si può notare come emerga spesso un vissuto contraddistinto da esperienze di negazione e invisibilità in virtù di un’attenzione rivolta in maniera predominante nei confronti del fratello svantaggiato.

Qualcuno potrebbe osservare: “quale è la novità? Tra fratelli rivalità e gelosia sono all’ ordine del giorno!”; qualcun altro direbbe, inoltre, che “la gelosia tra fratelli è normale e salutare”, come sosteneva Donand Winnicott.

Quello che fa la differenza è il vissuto, spesso presente, di colpa nei confronti del fratello disabile, vissuto che non concede l’ espressione della gelosia o della rabbia conseguente, creando inoltre un eccessivo criticismo verso se stessi.

Una sorta di “colpa del sopravvissuto” insomma che non cancella la gelosia e la sensazione di non essere “visti” dai genitori ma che può innescare circoli viziosi di scarsa autostima.

A volte il fratello, che non si sente in diritto di chiedere maggiori attenzioni, potrebbe mettere in atto comportamenti “indiretti” come atteggiamenti perfezionistici (con l’ idea magari che “se farò tutto alla perfezione allora meriterò amore e attenzioni”), oppure con sintomi fisici (una sorta di competizione con la malattia del fratello, messa in atto inconsapevolmente).

L’ altra spina nel fianco che la famiglia, fratelli compresi, deve affrontare è  la relazione con il mondo esterno. All’ interno delle mura domestiche, infatti, la disabilità può essere vissuta in modo “privato”  e, per questo, più libero, ma, varcata la soglia di casa, tutta la famiglia deve affrontare gli sguardi impietosi delle persone, la paura della diversità, l’ignoranza, l’esclusione sociale: barriere invisibili che potrebbero contribuire a costruire una fortezza entro cui rifugiarsi, soli e diversi.

I fratelli potrebbero vivere questa situazione in modo ancor più amplificato, soprattutto in adolescenza, a causa delle prese in giro dei compagni. Potrebbe nascere un atteggiamento ambivalente nei confronti del fratello disabile: la tendenza a nascondere la sua presenza, a non parlarne, a vergognarsi di lui; oppure potrebbe esserci, viceversa, la tendenza ad isolarsi considerando i coetanei degli “idioti” da cui stare alla larga. Entrambe le situazioni possono essere molto dolorose per il ragazzo.

Tuttavia, sempre in adolescenza, l’ esito positivo del processo di comprensione e accettazione della disabilità, potrebbe spingere il fratello a fare della propria esperienza addirittura una professione e orientarsi quindi, nella scelta scolastica, verso indirizzi di tipo sociale, educativo o sanitario. E questo ci introduce anche ai risvolti positivi che la relazione con un fratello o una sorella disabili può portare.

Bank e Kahn (1982) evidenziano, tra questi: una maggiore empatia, tolleranza, sensibilità, maggiore apprezzamento del valore della salute, maggiori competenze sociali e comprensione delle problematiche legate al pregiudizio, ovviamente.

Ricordo sempre con molto piacere il colloquio con “Sara”, la sorellina di un ragazzo autistico, e di come lei mi avesse descritto il fratello come il personaggio di un fumetto, con alcune difficoltà, ma anche con un potere speciale: la super-vista! Spesso nell’ autismo i disturbi percettivi permettono ai soggetti di vedere anche particelle infinitesime.

Sara inoltre, all’ età di cinque anni, era stata l’ unica della scuola materna a preoccuparsi di invitare alla sua festa di compleanno, senza il suggerimento di nessun adulto, anche un compagno disabile, dimostrando grande sensibilità.

La relazione fraterna è descritta dagli studiosi come una sorta di palestra che favorisce l’ abilità di perspective taking, cioè la capacità di assumere il punto di vista di un’ altra persona, da cui dipende la capacità empatica, dimostrata ampiamente dal comportamento di Sara.

Aspetti positivi e negativi quindi, caratterizzano la relazione tra fratelli nella disabilità. Similitudini e anche differenze, ma non tali da considerare tale relazione un elemento di disturbo nella crescita dell’ individuo. La relazione fraterna con un disabile non è perciò, per sua natura, negativa e patogena, pur comportando maggiori difficoltà e responsabilità da parte del fratello non disabile (Valtolina, 2004).

Da cosa dipende, dunque, il fatto che questo legame possa portare maggiori capacità empatiche o evolvere in vissuti cronici di colpa e torto subito?

Ancora una volta, per rispondere a questo importante quesito, la psicologia si affida al caro e vecchio relativismo sostenendo che dipende

Dipende sicuramente da alcuni “fattori protettivi” come, per esempio, il fatto che il fratello disabile sia il primogenito; ciò  aumenta le probabilità di adattamento del fratello sano che arriverà in famiglia in una situazione già organizzata.

Dipende anche da quanto è numerosa la famiglia: più fratelli ci sono e meglio è!

Dipende, inoltre, da quanto la famiglia è sostenuta socialmente, da parenti, amici, associazioni.

Dipende da come tutta la famiglia si rapporta alla disabilità, dalla serenità con cui i genitori sono riusciti a comunicare, in modo chiaro, realistico ma empatico, circa la problematica del fratello.

Dipende, insomma, dal significato che la disabilità assume all’ interno della famiglia mettendo in gioco la resilienza, cioè la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.

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